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Tu sai cose di me che io non so ancora

Intervista a cura di Nazim Comunale - The New Noise, 2020

https://www.thenewnoise.it/nicola-guazzaloca-tu-sai-cose-di-me-che-io-non-so-ancora/

 

Dimmi dunque compagno Sole
davvero non ti sembra
che sia un po’ da coglione
regalare una giornata come questa
ad un padrone?

Questi versi – mi sono dimenticato di chiedergli di chi siano, saranno argomento della prossima conversazione – accompagnavano un pacchetto che mi arrivò a casa oramai diversi mesi fa. La comunicazione iniziava dunque nel migliore dei modi per me: con la poesia.

Il latore della missiva era, è, e sospetto che sarà ancora per un bel po’, Nicola Guazzaloca, un pianista vulcanico e mai retorico, cocciutamente impegnato in una inesausta ricerca del non detto, dell’inaudito, lontano dalle secche della comfort zone dove talvolta il jazz affonda, animato da uno spirito beffardo e pugnace, intriso di un lirismo mai mieloso, che mi viene da definire olandese, se capite cosa intendo. Una delle anime della Scuola di musica popolare Ivan Ilich a Bologna, compositore nella band esplosiva Tell No Lies dei quali vi ho recentemente raccontato il live autoprodotto registrato al Torrione di Ferrara,  uomo dalle molte collaborazioni, una delle quali con Francesco Guerri, che ho recentemente intervistato proprio su queste pagine, il nostro coltiva un’idea di arte e di musica che mi risuona vicina a come la intendo io: una lotta donchisciottesca, non priva di ironia, contro i mulini a vento del conformismo, dell’ipocrisia e dell’ovvietà.

Era necessario approfondire con una chiacchierata.

Mi racconti il tuo primo trauma musicale? Positivo o negativo, non importa.

Nicola Guazzaloca: Dumbo al cinema, ero piccolo, non capivo nulla, quasi mi spaventò, ovviamente la sequenza dei Pink Elephant con la musica di Sun Ra. Traumi negativi per ora nessuno.

Il primo e l’ultimo disco che hai comprato, il primo e l’ultimo concerto a cui sei stato.

Bad di Michael Jackson su audiocassetta, abbastanza casualmente, il primo. Su Mimmi Non Si Spara di Francesco Guerri l’ultimo: è un mio carissimo amico. Sono andato a Cesena a casa sua per impossessarmene ma non ha voluto i soldi, quindi non so se vale come acquisto. Io ci ho provato. Il primo concerto credo fu degli Inti Illimani o delle Mumble Rumble, comunque ad una festa dell’Unità con mio padre, livello di partecipazione direi onirico, mi portava in molti posti la sera ma io dormivo. Il più recente è stato alla Spm Ivan Illich in occasione di un seminario che abbiamo organizzato sulla musica andina, suonava Patricio Sullivan. Ma siccome ci ho messo parecchio a completare le risposte alle tue domande devo aggiornare questa: nel frattempo sono andato a sentire il trio Grubbs/Gustaffson/Mazurek. Per ora la statistica dice che sono un appassionato di musica andina.

Raccontami della scuola popolare di musica Ivan Illich.

È un luogo di didattica, di ricerca e socialità, autogestito da quasi trent’anni, che sono tanti per un’esperienza del genere. Quando guardiamo la foto di un bambino e la confrontiamo con l’adulto vediamo due persone diverse, poi di solito si riconoscono gli occhi, lo sguardo. Quello sguardo è ben rappresentato dalle parole del nostro statuto, che vorrei riportare in corsivo così si distingue dalle stupidaggini che scrivo di mio pugno:

L’associazione si prefigge di promuovere e attuare progetti di ricerca sulla didattica e sulla produzione musicale fondate sulla libertà di espressione e il rispetto dell’individuo. L’Associazione è aperta a tutte le fasce di età ed è rivolta a valorizzare la diversità tramite l’interazione degli individui con particolare riferimento alle fasce di marginalità sociale contribuendo in tal modo alla crescita culturale e civile dei propri soci.

Per quanto mi riguarda più direttamente, con la Spmii ho avuto modo di sperimentare, di tenere seminari, workshop e laboratori, sviluppando un approccio alla didattica e alla conduzione che non avrei potuto maturare altrimenti, anche grazie alle tante attività che abbiamo ospitato, non solo della mia “area di interesse”, dato che la scuola propone una visione della musica a tutto tondo. Alcune di queste mi hanno portato a collaborazioni importanti da scrivere nel curriculum, come con Barre Phillips e Tristan Honsinger, ma forse ancor più importante è stata la possibilità di organizzare iniziative. In certi anni sembrava veramente che da Bologna passassero tutti, e disporre di un luogo fisico dove incontrarsi, dove fare quel che era naturale fare nel momento in cui era naturale farlo, è stato essenziale e generativo. Lì conobbi Edoardo (Marraffa), e si prese a suonare insieme. Gli devo molto del mio modo di improvvisare, mi ha incentivato e stimolato, all’epoca avevo già fatto un po’ di strada e scrivevo molta musica, ma è con lui che ho messo davvero a fuoco certi aspetti. E devo molto a Sandro Sorrentino per l’idea di musica come mezzo politico e pratica sociale, non so quanto questo emerga dalla musica che suono ma sicuramente è un elemento centrale in quel che faccio e nel come mi comporto. Grazie a quel posto molte idee hanno potuto prendere corpo. Ci tengo però a sottolineare che non è stato e non è il paradiso, l’autogestione comporta attriti e stanchezza, ci sono molti rischi e tante energie vanno disperse. Ma rifarei tutto, in effetti ancora lo faccio.

Il (free) jazz, l’improvvisazione. Come spiegare questi mondi a chi non li ha mai frequentati? Le parole secondo te possono riuscire in qualche modo a restituire la natura di una musica che è per sua stessa essenza sfuggente e mutevole? A me piacciono i dischi di improvvisazione perché ogni volta che li sento ci trovo qualcosa di nuovo.

A farti sentire ogni volta qualcosa di nuovo è la tua libertà di interpretare, la tua fantasia e la tua autonomia di pensiero, se ne vuoi godere devi utilizzarla, farla lavorare, come ascoltatore e come musicista. La musica è un modo di organizzare i suoni soggetto a varianti potenzialmente infinite, ne sono testimonianza le tante diverse culture del mondo. L’uso del suono per formare linguaggi le accomuna, mentre il modo in cui lo utilizziamo le differenzia, costituisce espressione del contesto e dell’individuo. È un valore identitario ed è condizionato dalla società, non potrebbe essere altrimenti, visto che si utilizza in prevalenza per comunicare funzionalmente. Questo condizionamento non sempre è finalizzato a una migliore condivisione e comprensione tra gli individui, anzi è spesso dettato dalle esigenze di chi deve mantenerne il controllo per garantire vantaggi e privilegi. Perché una società sia controllabile occorre che le persone non prendano iniziative tali da rendere instabile il meccanismo, da metterlo in dubbio. Dunque non dovremmo pensare né inventare, e in effetti non lo facciamo veramente, scegliamo tra ciò che è già stato scelto. In questo meccanismo ci nasciamo, lo assimiliamo e lo assecondiamo, e può essere difficile avere pensieri propri, ancor più metterli in pratica, ci si disabitua. Con la musica, che è un terreno del tutto astratto, possiamo pensare e agire diversamente, ad esempio in modo da tenere in esercizio la nostra autonomia e praticarla insieme ad altri. Definirei l’improvvisazione un esercizio di libertà, che non significa necessariamente fare quello che ci pare senza responsabilità, visto che il risultato dipende proprio da noi e dal modo in cui ci relazioniamo con gli altri. E a parte gli aspetti concettuali, questa libertà offre un grande piacere, ricongiunge ciò che sentiamo a ciò che facciamo, è salutare. Se da un lato ho deciso di non alimentare contesti in cui la musica è privata della sua libertà, in cui ne siamo privati noi, dall’altro mi sono impegnato sempre di più nella didattica e nella ricerca di alternative concrete.

Hai pubblicato una montagna di dischi, tra improvvisazione ispida, cose più jazz, qualunque cosa questo voglia dire, laboratori didattici, collettivi. Cos’è, bulimia, horror vacui, necessità di documentare ciò che sfugge nel momento?

In realtà parliamo di un paio di dischi all’anno, con periodi in cui non ho pubblicato nulla e altri in cui ho prodotto di più. Diciamo che se i dischi possono rappresentare qualche momento significativo, credo che sì, almeno un paio di momenti significativi all’anno mi sono capitati. Anche qualcuno di più. Ma non si pubblica tutto. Ora con l’avvento dei social esce un disco al giorno, altro che due all’anno… comunque, molti dei miei dischi riportano concerti dal vivo e in quelle circostanze prima di tutto penso a suonare. Sono convinto che quel che conosciamo della musica attraverso i dischi sia qualcosa di approssimativo e apparente, una discografia è un elenco, e leggendo un elenco è difficile capire quale sia la natura dei materiali che lo compongono. I dischi per me formano una mappa temporale, geografica e ovviamente sonora che comprende alcuni punti toccati in un percorso che mi piace tenere a mente e anche condividere, ma quello che c’è tra un punto e l’altro non compare nell’elenco, ed è il grosso della faccenda. Un disco dura un’ora scarsa, io sono vivo anche tutto il resto del tempo, suono, penso. Lavoro. I dischi sono solo una conseguenza della musica. Se non ci fosse musica, con tutto quel che significa, non ci sarebbero dischi. Mi rendo conto di aver detto una banalità strepitosa.

Parlami un po’ di Comanda Barabba e poi delle tue collaborazioni coi musicisti dell’Est.

Comanda Barabba quest’anno compirebbe vent’anni, uso il condizionale perché non ci siamo mai sciolti, ma da diversi anni non siamo più in attività per ragioni logistiche, e poi forse avevamo bisogno di una pausa. Certo è un po’ lunga, l’ultimo concerto è stato alla Bimhuis nel 2012. È il gruppo dove ho potuto sviluppare buona parte dell’approccio alla scrittura e all’arrangiamento che utilizzo tuttora. Devo molto a quell’esperienza, ci siamo impegnati molto e abbiamo ottenuto risultati importanti. Ma le occasioni per suonare erano poche. Eravamo nei top jazz ma i concerti scarseggiavano. Forse riponevamo troppe aspettative in un unico progetto. A dirla tutta, penso che il mondo della musica sia appesantito dalla poca trasparenza dei suoi meccanismi, dalla poca onestà, forse anche dei musicisti stessi nell’ammettere le condizioni in cui operano, spesso alimentando meccanismi controproducenti. Da un lato ci si lamenta, dall’altro però ci si vanta. Con Comanda Barabba iniziò anche la mia collaborazione con Tim Trevor-Briscoe, parliamo della fine degli anni ’90, una decina d’anni dopo fu durante un tour in duo in est Europa che incontrammo Szilard Mezei ed avviammo un trio che penso costituisca il miglior progetto internazionale di cui faccio parte. A dire il vero ho suonato in vari paesi all’estero e ho sempre cercato di avviare collaborazioni con musicisti del posto, a volte del tutto estemporanee, altre volte più durature e feconde, come con Hannah Marshall in Inghilterra, Joao Pedro Viegas in Portogallo o i Mountweazel in Germania. Certamente quella con Szilard è una delle più longeve e documentate, ma non c’è una predilezione elettiva per i musicisti dell’Est, ho suonato con gente di tanti posti diversi. Anche se in effetti in marzo suonerò a Roma con Albert Màrkos, violoncellista, che è transilvano. Ma credo sia un caso. Oppure tu sai di me cose che io non so ancora.

Musicisti nel jazz italiano e non che apprezzi e collaborazioni dei sogni all’orizzonte?

Devo essere sincero, non conosco molto bene lo scenario jazzistico, mi distraggo facilmente e in realtà non sono un patito di jazz tout court. Mi piace chi sperimenta e si spinge fuori dai confini costruendo qualcosa che stia in piedi, e non mi piace chi cerca di assomigliare troppo a qualcun altro. Il jazz italiano ha poco della prima caratteristica, e troppo della seconda. Trovo molto interessante quello che fa Piero Bittolo Bon, se in un blindfold test ascoltassi una sua composizione e mi dicessero che è di un italiano, credo sarebbe uno dei pochi che saprei riconoscere. Immagino di poterlo collocare tra i jazzisti, visto che suona il sax (so che apprezzerà questa mia analisi). Pure un discorso sulla voce strumentale mi porterebbe a conclusioni analoghe, riconoscerei un numero piuttosto limitato di musicisti. Però ripeto che il limite è tutto mio: non sono un patito della scena jazzistica, probabilmente non so cogliere certe sfumature. Per completare la delusione costituita dalla mia risposta, ti dirò anche che non ho collaborazioni dei sogni all’orizzonte: i progetti che ho in corso vanno benissimo. Certo mi piacerebbe rivederne in piedi alcuni che per i casi della vita sono in stand-by, come il duo con Francesco Guerri, o con altri amici con cui non riusciamo a mettere i piedi per terra e ci si piglia un po’ al volo. E naturalmente, vorrei suonare con tutti coloro con cui suonerò: non posso sapere chi saranno e questa incognita mi piace, vent’anni fa mica avrei potuto dire cosa avrei fatto nei vent’anni successivi. Tra le cose fresche fresche appena fatte: pubblicheremo a breve il nuovo disco di Tell No Lies, la formazione per la quale attualmente scrivo più musica e devo dire grazie a chi la suona (Edoardo Marraffa, Filippo Orefice, Luca Bernard, Andrea Grillini), o non la scriverei. È raro trovare chi ha voglia di rischiare in un ambito dove invece si tende a garantire il prodotto, sono musicisti coraggiosi e personali. E a proposito di rischi, in novembre ho registrato una certa quantità di materiale con Luciano Caruso, uno che ha fatto scuola e la sua genuina voglia di mettersi in discussione è di gran conforto in un momento in cui impera l’autoaffermazione da social-media. Sempre in novembre ho preso parte a un piccolo tour tra Serbia e Ungheria con Szilard Mezei e Tim Trevor-Briscoe, i concerti sono stati molto belli, non ci vediamo spesso e quando suoniamo diamo tutto. Dalle registrazioni del tour dovremmo selezionare del materiale da pubblicare, e il prossimo ottobre ci incontreremo in Italia, facendo base per ora a Milano e Bologna. Per completezza però devo dirti che ho fatto anche cose insoddisfacenti e trascurabili.

Come hai iniziato col pianoforte? Chi sono, o erano, o saranno, i tuoi pianisti di riferimento?

Non ho un percorso di studi formale, con la musica ho iniziato alla fine degli anni Ottanta, eravamo nemmeno adolescenti, suonavamo in cantina e riflettevamo un’estetica punk senza neanche sapere che cosa significasse “estetica punk”. Negli anni sono cambiate le conoscenze, sono cambiato io ed è cambiata la musica. Sono passato al pianoforte quando ho cominciato con il jazz, però non ho mai studiato davvero i pianisti, potrei citarne alcuni che ho molto ascoltato e molto amato, ma alla fine sono quelli che hanno ascoltato tutti e non sono loro a rendermi diverso da un altro pianista. Nel jazz, Monk e Bill Evans sono forse i due che ho ascoltato di più. Mi piace ascoltarli, non imitarli, mi piacciono talmente che mi guardo bene dal farlo. Poi potrei dire Pablo Ziegler, nei dischi con Piazzolla è fantastico, potrei dire Martha Argerich, ma che potrei dire io della Argerich? Alla fine non saprei davvero dire che tipo di preparazione ho, non si finisce mai di evolversi, non ho ancora finito. Più che una preparazione, cerco di mantenere fresca e viva una certa impreparazione. Mi piace ascoltare di tutto, e di tutto mi piace portare qualcosa nel mio linguaggio, o almeno provarci. Ho studiato altri strumenti, altre culture, mi sono interessato di ogni musica che ho potuto, anche di quella che non mi piace, perché alla fin fine mi interessa tutto quello che si esprime col suono, parole comprese. Poi smonto e uso come meglio credo, cercando di partire il più lontano possibile da quel che conosco, e a volte trovo qualcosa che mi suona familiare anche se non assomiglia a niente.

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