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Sands-Zine: intervista a Nicola Guazzaloca

a cura di Andrea Ferraris - Sands-Zine, 2009

http://www.sands-zine.com/archivioart.php?id=3413

 

Nicola Guazzaloca è un pianista da tenere d`occhio, come avrete modo di leggere dalla sua biografia ha avuto esperienze con gente come Tristan Honsinger, Edoardo Marraffa, Barre Phillips, William Parker, Anthony Braxton, Roscoe Mitchell, Muhall R. Abrahams, Marc Ribot... se alcuni di questi musicisti potrebbero contestualizzarlo nell'ambito jazzistico (non certo tradizionale), va detto che la sua produzione, a partire dai lavori in duo con Trevor-Briscoe, McDonas o Marraffa, fino all`attività decennale col quintetto Comanda Barabba ed alle varie partecipazioni su Setola di Maiale ed Amirani, dimostrano che non si tratta del classico pianista jazz e sicuramente non parliamo di un musicista ingabbiato da un genere. Nonostante le sue idee siano chiare e non ci restituiscano la foto di un presenzialista interessato a partecipare per il puro gusto di “esserci”, Guazzaloca è uno che ha saputo spostarsi e toccare diverse corde e diversi modi per accostarsi alla musica in modo creativo. La sua attività presso la Scuola popolare di musica Ivan Illich e la partecipazione a vari collettivi dell'area bolognese ne fanno un personaggio di particolare interesse sotto diversi punti di vista. Nonostante ciò, non si tratta di uno di quei musicisti che si è per questo “disumanizzato” e questa frase con cui ha corredato una delle risposte inviate durante un breve tour europeo in parte la dice lunga sul suo modo di intendere la musica e ciò che sta facendo:

«...in 10 giorni di tour i concerti hanno occupato poche ore in tutto. Il resto del tempo è stato... vita! Non ho potuto viaggiare molto finora, sono contento che la musica mi porti questo regalo.»


Negli ultimi anni ho avuto come l'impressione che rispetto ai Comanda Barabba tu ti sia andato spostando sempre più in direzione dell'improvvisazione, fino a diventare promotore e cuore delle sessioni organizzate alla SPM Ivan Illich. Ma com'è nato quest`amore per la musica improvvisata e com'è andato sviluppandosi?

Ho iniziato a improvvisare insieme ai musicisti coi quali suonavo jazz, da metà anni 90 più o meno. Diversi di loro sono stati con me i co-fondatori di Comanda Barabba, nel quintetto scriviamo e improvvisiamo ricercando in modo abbastanza disinibito, ma il live pubblicato con Radio3 ci ha fatto conoscere più che altro per l'omaggio alla musica afroamericana, al free jazz, cui si ispiravano varie mie composizioni. La musica che improvvisavamo dentro le strutture iniziò ad essere qualcosa che poteva camminare da sola. Il contesto del gruppo è stato determinante per sostenerci e aiutarci. In seguito ho iniziato ad insegnare alla Scuola popolare di musica Ivan Illich, dove ho conosciuto Edoardo Marraffa. Lui è un improvvisatore esperto, ha condotto una ricerca molto profonda, lavorando e suonando insieme mi ha aperto delle porte, come pure il violoncellista Tristan Honsinger. Ho potuto avere esperienze di studio con musicisti diciamo famosi, Braxton, Phillips, Parker, Mitchell, ma è stata anche più importante la pratica, avere dei compagni di viaggio con cui crescere nel tempo. Dal 2007 ho iniziato a organizzare gli incontri di improvvisazione all'Ivan Illich, gratuiti e aperti a tutti, cercando quando possibile di coinvolgere gli artisti che partecipano alla rassegna settimanale. Credo avrei fatto progressi molto più rapidamente se avessi potuto frequentare contesti del genere quando iniziai ad avvicinarmi alla musica improvvisata. Non era così praticata.

Non credi che però il rischio per molti sia quello di pensare che per improvvisare basti solo la pratica? E conta di più la teoria o l'autoanalisi? Ma soprattutto in un campo in cui alcuni fanno dell'errore non una bruttura, ma addirittura un punto di forza: quali sono i canoni per poter valutare la validità di ciò che suoni/suonano gli altri? L'improvvisazione è davvero il campo del relativismo assoluto e se è così vale davvero tutto?
La teoria musicale sarebbe bene venisse sempre verificata e praticata confrontandosi con altri, che fosse frutto di scelte, non di condizionamenti. Ci sono molte teorie diverse e se ne possono esplorare di nuove... non bisogna limitarsi a ciò che altri vogliono farti sapere, questo lo posso dire in generale. Mi piace conoscere diverse teorie e metterle in relazione fra loro. Credo che un improvvisatore non possa prescindere dal confronto, dalla condivisione, il cambiamento richiede partecipazione. Credo sia analogo il discorso che si può fare per l'errore, non basta da solo per costituire qualcosa di creativo. Derek Bailey applicava alla sua chitarra cordami e oggetti che risuonassero in modo imprevedibile, per ricevere stimoli nel corso dell'improvvisazione. E' la capacità di trasformare positivamente quegli stimoli, gli "errori", che costituisce un valore creativo. Non ho un criterio definito per valutare se un'improvvisazione sia valida o meno, certamente c'è musica che non mi piace, improvvisata o no, ma è solo un`opinione dettata dalla mia sensibilità. Ho i miei canoni, ma forse non è giusto porre dei limiti in un contesto dove la curiosità è essenziale.

Mi dicevi che ormai ti interessa molto di più suonare in un contesto con persone piacevoli e stimolanti piuttosto che in situazioni più “cool”? Direi che le cose si colleghino, ma non rischi che sia controproducente in termini di “fama”? Ho visto la recensione del tuo disco Leo Records su Musica Jazz, si tratta di un circuito molto chiuso, in cui il modo di proporsi conta parecchio, per quanto tu non suoni solo e semplicemente jazz immagino che una volta fossi affascinato da quel circuito.
Lo ero e lo sono, alcuni progetti in cui sono coinvolto trovano collocazione nei contesti jazzistici. Diversi anni fa il jazz "classico" lo suonavo nei locali insieme ad alcuni musicisti con i quali collaboro tuttora, magari in altri contesti, come Tim. E` stato per tutti un momento di crescita. Ma sicuramente non conosco decine di standard a memoria e sicuramente ho dedicato parecchio tempo ad altra musica, suono da una ventina d'anni, ho un percorso, non si nasce già fatti e in ogni caso spero di essere lontano da un punto di arrivo, mi piace l'idea di avere ancora molto da imparare. Che fama possa comportare questo non lo so, immagino che chi si definisce jazzista non potrebbe considerarmi tale, ma rifugiandosi dietro un paravento si diventa diffidenti verso quel che si trova dall'altro lato. E' il paravento stesso che impedisce di vedere, e tendendo a "chiudere fuori" i presunti intrusi in realtà ci si chiude dentro.

Ecco un bel punto: e “chiudersi dentro” cosa comporta? E' solo negativo? Spesso i manuali di psichiatria partono con l'idea base che “il linguaggio dei folli” non sia privo di senso ma che invece abbia un senso ben preciso, solo diverso dal linguaggio comune... al di là di tutti i romanticismi (spesso banali e parecchio patetici) del binomio genio/follia: chiudersi dentro può portare alla formazione di un linguaggio autonomo? Oppure “la verità è la fuori” ed è da cercare nel “rapporto/dialogo” con il resto del mondo?
Nella follia la fantasia è posta sullo stesso piano della realtà e in questo ci sono certamente attinenze con la musica, perchè è la fantasia, l'interpretazione, che dà a quei suoni un significato. E si condividono riferimenti completamente astratti. La cultura fa parte di ciò che gli esseri umani hanno inventato, è un'interpretazione del creare e del creato, e ha un valore quando viene condivisa. Se credi in qualcosa e vivi in funzione di quel credo, la tua esistenza ne testimonia la possibilità, ma questa si deve poi verificare nella relazione con gli altri. Credo sia improbabile formare un linguaggio senza condividerlo, senza avere relazioni. Però penso anche che l'isolamento possa favorire il processo interiore e portare dei benefici sotto diversi aspetti, come quelli che richiedono concentrazione o tempi propri. Occorre trovare un equilibrio tra introspezione e confronto, per stare bene. Siamo sottoposti a molti stimoli diversi e credo sia necessario creare le condizioni per mantenere o recuperare dinamiche più umane e naturali. Ma se parliamo di un isolamento che significa  rifiuto per ciò che non è coerente a se stessi, allora forse c'è il rischio di non essere capiti e di non capire, con risultati magari opposti alle intenzioni.

Insegni musica alla SPM Ivan Illich che è una "scuola di musica popolare" esatto? Non trovi che ci sia quasi un controsenso rispetto a molta della musica che suoni? Intendo dire che molta della musica che ho sentito e nella quale sei direttamente coinvolto è tutt'altro che "popolare".
C'è un malinteso che capita abbastanza di frequente e questa è una bella occasione per chiarirlo. La scuola si chiama "scuola popolare" di musica, non di "musica popolare". La differenza è sostanziale, è la scuola, l`idea per cui è nata, ad essere popolare. E' intitolata ad Ivan Illich, che molto ha scritto e pensato sul rapporto tra scuola e società, rivolgendosi all'apprendimento come ad un processo sociale, da non sclerotizzare nel rapporto gerarchico tra studente e docente. La scuola è autogestita da allievi e insegnanti dal 1992, tramite me hai conosciuto gli aspetti attinenti la musica di ricerca, di cui mi occupo e faccio del mio meglio per promuoverne sviluppo e diffusione. Ma la mia attività non è rappresentativa: c'è il laboratorio sulle musiche di tradizione orale, la rassegna di documentari, il coro di canto sociale, i seminari settimanali e i laboratori annuali, le feste musicali per i bambini, tutte attività inclusive che accolgono persone diversamente abili o soggette a differenti fragilità. Sto citando un poco a caso, non ricordo tutto... l'Ivan Illich non ha mai ricevuto molta attenzione mediatica o istituzionale, pur essendo un'esperienza pressochè unica in Italia e conosciuta all'estero. Ogni anno cerchiamo di proporre cose nuove, e di dare continuità a quel che ha funzionato negli anni precedenti. Sono contento che la scuola riceva attenzione grazie alla musica improvvisata, e viceversa, ma se possiamo farlo è grazie a uno sforzo collettivo retto anche da chi non è necessariamente interessato a quel tipo di musica, così come io mi trovo spesso a collaborare ad altre attività. Alla base della scuola c'è un'idea sociale e politica. Per far stare bene la musica occorre far funzionare anche il resto, non possiamo lamentarci se tutto quello che facciamo per cambiare le cose è suonare uno strumento. Non basta. Riguardo la musica che facciamo, l'improvvisazione, a te non sembra popolare? Non conosco altri contesti musicali che come questo possano mettere insieme musicisti con esperienze tanto diverse, compreso chi magari di esperienza non ne ha ancora. Guardo molto a quali risultati la musica porta in termini di socialità, credo ci sia bisogno di punti di incontro fra le persone, per guardarsi in faccia e parlare insieme di cosa fare domani. Altrimenti non faremo nulla. In certi contesti musicali c'è troppa competizione, la musica non è una gara. La musica è una delle cose che gli esseri umani possono fare per stare bene insieme. Stando bene insieme si può lavorare per qualcosa di meglio. Vedo troppi musicisti frustrati dalle loro aspettative, sprecano un dono, ma forse non è solo colpa loro.

E qui si pone la solita annosa questione: ma quindi l'improvvisazione è per tutti? Tutti possono essere egualmente bravi? Nell'improvvisazione vale tutto inclusi i colpi bassi? L'improvvisazione si può preparare? Ci sono diversi modi e livelli di improvvisazione? Una sorta di relativismo assoluto in cui chiunque può dire la sua e mettere in dubbio tutto e tutti è anche un bel po' pericoloso... e se dico che i "campi di concentramento non sono mai esistiti"?
Preparare l'improvvisazione significa in qualche modo organizzare la musica, comporre a priori. Esistono tanti modi per farlo, che magari lasciano molto spazio all'improvvisazione e all'interpretazione, ma se c'è qualcosa di preparato prima, l'insieme non può definirsi improvvisato. Non ho niente contro la scrittura, in diversi casi scrivo musica e scrivendo ho messo a fuoco molti punti importanti del mio carattere musicale, ho studiato cose che forse avrei trovato meno stimolanti se fossero state fini a se stesse. Improvvisare è un modo di comporre, e avere esperienza in altri ambiti compositivi credo sia d'aiuto, anche se nell'improvvisazione la relazione con gli altri musicisti, la comunicazione, è parte fondamentale del processo e incide in modo sostanziale. Certamente ci sono livelli: di esperienza, di conoscenza, di sensibilità, di tecnica, tutti parametri attribuibili a un musicista come a un cuoco o a un meccanico. Non credo che per l'improvvisazione esista un relativismo assoluto che renda valida qualsiasi cosa, non conosco musicisti che piacciono a tutti, indipendentemente dalla loro "bravura". A me non piace tutto. Capisco il pericolo di cui parli, ho sentito l'intervista a quel ragazzo nella quale dichiarava che i campi di concentramento non sono mai esistiti. Cultura e conoscenza non vanno date per scontate, avere libertà di esprimersi comporta la possibilità che vengano dette delle cazzate e che qualcuno ci creda.

«Preparare l'improvvisazione significa in qualche modo organizzare la musica», vero, ma c'era chi diceva che «l'improvvisazione non si improvvisa». Non trovi che spesso i materiali utilizzati e le frattaglie che ricompaiono quando mangi il minestrone siano materiali (spesso legati allo stile peculiare di questo o quel musicista) che uno si porta "da casa"? Il fatto stesso che durante un'improvvisazione spesso venga a galla il background di un musicista credo sia parecchio indicativo.
Credo che il background venga a galla in gran parte delle scelte che si fanno, non soltanto nella musica. In linea di massima non prescindiamo da ciò che siamo, e se intendiamo questo, condivido l'idea che l'improvvisazione non si improvvisi: l`improvvisatore è una persona e come tale ha una personalità, che afferma con le proprie scelte, anche ribadendole. I materiali che vengono riproposti in modo significativo sono spesso elementi distintivi di questa personalità, e diventano riferimenti per chi suona e per chi ascolta. Ma il proprio contributo nell'ambito di un'improvvisazione collettiva cambia in base al contesto, e il contesto è determinato da quel che fanno gli altri improvvisatori, non è prevedibile, non del tutto. Anche suonando materiali predeterminati si può decidere estemporaneamente il modo di combinarli insieme, con risultati molto differenti.

Andando nello specifico del tuo lavoro con Thollem Mcdonas, mi dicevi che è stato molto impegnativo. In che termini? Pur non avendolo mi visto dal vivo ho due suoi dischi e trovo che abbia un approccio molto fisico al piano, in un certo senso si sente che è americano. Nonostante ciò e nonostante alcuni dialoghi molto fisici trovo che sia anche ricco di parti a loro modo delicate. Nell'ascoltarlo ho trovato molta musica classica, non solo contemporanea, e ben poco jazz se non in certe soluzioni ritmiche, eppure in un certo senso è presente nel genoma di entrambi, o sbaglio?
Thollem ed io non avevamo mai suonato insieme prima di quel concerto, ma in diverse occasioni abbiamo ospitato le sue performance alla SPM Ivan Illich, ed è stato ospite delle nostre jam session, quindi ci siamo potuti confrontare e abbiamo sentito una bella affinità, che si è concretizzata appena c'è stata la possibilità di suonare dal vivo con due pianoforti. Non ci sono molti esempi per questo tipo di performance, quelli che conosco hanno modalità piuttosto convenzionali, così nel bene e nel male non c'erano precedenti da infrangere o rispettare. Credo che proprio per questo entrambi abbiamo percepito una speciale fragilità, non potevamo dare per scontato nulla. Per noi è stato un bel concerto, bellissimo. Tanto che la registrazione è diventata un disco, grazie a Gianni Mimmo che l'ha prodotto per Amirani Records. Gianni sta facendo un lavoro importante per sostenere e diffondere la musica contemporanea improvvisata in Italia. Riguardo i contenuti cui accennavi, dal jazz si può imparare molto, ma non è detto che per mettere a frutto quel che si è imparato sia necessario suonarlo... quindi sono contento che tu non ne abbia trovato troppo! Ci sono principi, idee, che possono essere importanti per sviluppare qualcosa anche in direzioni diverse rispetto al contesto che le ha generate. Sono italiano, europeo, abbiamo un patrimonio di suggestioni musicali ricchissimo e radicato nell'immaginario collettivo... Thollem è americano, ma come pianista ha alle spalle studi classici approfonditi e per nulla banali, è stato stimolante esplorare insieme questi terreni comuni, raggiunti partendo da luoghi tanto diversi. Non escludo che il background di un europeo possa comprendere musiche di altre tradizioni, anzi, purchè l'essere affascinati da un "altrove" non porti a vivere la propria realtà come se si trattasse di quella sbagliata, di una realtà di seconda mano. Si rischia di svilire se stessi, di perdersi un po'.

Il tuo discorso sembrerebbe aprire ad una sorta di non globalizzazione del suono/suonare, per certi versi lo condivido ampiamente, ma è anche vero che proprio in questi giorni ho ascoltato il disco di un compositore turco che suona roba elettronica-contemporanea non troppo distante da molte cose europee e allo sesso modo mi è capitato di sentire suonare della musica “finto-tradizionale” araba, klezmer o asiatica da gruppi completamente formati da americani. E` vero, il cercare “altrove” spesso fa smarrire la retta via, ma non trovi che l'allargamento del web abbia prodotto effetti interessanti? Certo la musica come “prodotto” sta venendo soffocata da un mercato ipertrofico, idem il ruolo del “musicista”, ma è solo negativo? In che termini si riflette su quello che fai e su quello che fanno altri musicisti come te?
Beh, tramite il web ho potuto conoscere musicisti dei quali non sapevo nulla e probabilmente avrei continuato a non saperne nulla, internet permette una maggiore e autonoma circolazione della musica, delle idee... a saper cercare si trova di tutto e per molti versi è un bene, anche se è difficile individuare i criteri per dare il giusto peso ad ogni cosa. Per quanto riguarda la musica improvvisata è stato bello avere un'idea di quanto il linguaggio sia condiviso, e mi sembra che la mobilità dei musicisti sia aumentata effettivamente, grazie al contatto diretto ed autonomo reso possibile dal web. Mentre ti scrivo sono a Budapest con Tim e a giorni ci sposteremo in Serbia per un altro festival, è un piccolo tour europeo organizzato con l'aiuto della Leo Records, e non sono stati necessari altri intermediari, questo sempre grazie alla comunicazione via web. Fino a qualche tempo fa era improbabile muoversi all'estero senza un agente, anche adesso è complicato, ma volendo è possibile. Riguardo l'idea di non-globalizzazione musicale, non vorrei farne una questione troppo radicale, le persone vanno prese nella loro completezza e se suonare musica "finto tradizionale" fa di te una persona complessivamente migliore, ben venga. Io sono passato attraverso molte esperienze diverse, poi ho fatto una scelta, e comunque non escludo il cambiamento.

Oltre all'uscita con Thollem ed il disco per la Leo con Tim ho visto che quest'anno hai fatto uscire anche parecchie altre cose, è un anno che si muove più velocemente di altri? E' cambiato qualcosa nel tuo modo di muoverti/porti/proporti/etc..? E' cambiato il modo in cui vieni recepito? Ma soprattutto in che modo credi che questo ti influenzerà? Sei uno di quelli che uscito un disco passa subito a pensare ad altro senza neppure avere il tempo di goderselo, o ti permetti di prendere fiato e di fare il punto della situazione?
Il disco spero se lo godrà chi lo ascolta. Certo è una soddisfazione arrivare al compimento di un lavoro, ma il disco serve a riprodurre la musica, poi è diventato un mezzo utilizzato con intenti commerciali, promozionali, assumendo significati che forse possono essere fuorvianti. Quest'anno in realtà mi sono molto dedicato alle attività della scuola e ad organizzarmi per il tour europeo, mentre i dischi di cui parli documentano esperienze un po' meno recenti, anche se tutte hanno avuto una continuità fino ad oggi. Ma come dici tu, occorre prendere fiato, rispettare le proprie risorse, la propria creatività. Non vorrei essere condizionato da tempi e dinamiche che non mi appartengono. Fino adesso per andare avanti con la musica senza troppi compromessi ho dovuto guadagnarmi da vivere anche in altri modi. Non me ne lamento, ho iniziato a lavorare presto, come tanti, e se non l'avessi fatto sarei stato costretto - come musicista - a fare cose che artisticamente non condivido. All'inizio mi sentivo dire che se non vivi solo di musica non puoi essere definito un musicista, io credo che il musicista sia chi fa la musica, e non mi sembra un significato fraintendibile. Purtroppo sia la musica che la capacità di avere un'opinione incondizionata hanno subito grossi danni, la mercificazione di ogni cosa confonde i valori e se non avessi incontrato persone intelligenti sarebbe stato complicato trovare spazio. In molti contesti lo è tuttora, ma non mi interessa essere ovunque o piacere a tutti. Quando suono porto esclusivamente la mia musica, ogni volta è diverso, e ho bisogno di tempo per continuare a sviluppare la mia ricerca. Se suonassi continuamente dovrei rinunciare a troppe cose importanti, la musica ha bisogno di nutrimento e stimoli, per quanto mi riguarda li trovo nella vita quindi prima di suonare ho bisogno di vivere.

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