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Solar Ipse: intervista a Nicola Guazzaloca

a cura di Loris Zecchin - Solar Ipse X, 2016

 

Intanto per cominciare vorrei sapere qualcosa sui tuoi inizi. Sei stato tu a scegliere il piano o ti è stato imposto il suo studio, come spesso capita, dai genitori quand'eri piccolo? In casa tua c'era già questo strumento?

Non ho un percorso di studi classici, ho iniziato alla fine degli anni ottanta suonando tastiere e sintetizzatori, eravamo nemmeno adolescenti, suonavamo nelle cantine e riflettevamo un'estetica punk senza sapere cosa e perchè. Negli anni è cambiata la musica, le conoscenze, sono cambiato io e ho dovuto studiare parecchio per poter suonare ciò che sentivo e che mi passava per la testa. Bologna è stata un luogo vivace, a suo modo lo è ancora, e per la sperimentazione gli anni novanta sono stati di grande fermento. Da una decina d'anni insegno alla scuola popolare Ivan Illich, dove alcuni aspetti di quel fermento hanno potuto avere continuità ed evolversi. Comunque il pianoforte mi ha sempre attratto, da bambino capitò di poterci mettere le mani per caso, e la sensazione trasmessa dal suono era bellissima, mai provata, è qualcosa che poi ho continuato a cercare.

 

Che filosofia sposa la scuola popolare Ivan Illich? E' una sorta di scuola di Testaccio (Roma)? So che lì insegna anche un sassofonista che seguo con particolare interesse, Edoardo Marraffa...

Nel panorama nazionale, e non solo, le scuole popolari sono poche e forse per questo risulta spontaneo accomunarle, ma rispetto al Testaccio ci sono delle differenze sostanziali, certo anche dei punti in comune. La Spm Ivan Illich nasce nel 1992, erano i tempi del movimento studentesco della Pantera e di alcune esperienze culturali e sociali importanti, oggi cessate o radicalmente trasformate per una varietà di ragioni. Tutto partì con un'occupazione e l'idea di costituire un'alternativa concreta ai percorsi formativi istituzionali. Credo che l'impegno nell'ideazione e sviluppo di un progetto didattico e sociale sia stato fondamentale per resistere al tempo e alle molte difficoltà interne ed esterne. La collaborazione con Edoardo è cominciata nel 2006, ci eravamo già conosciuti ma non suonavamo ancora insieme. Oggi la scuola è frequentata in modo eterogeneo, negli stessi laboratori si incontrano bambini, studenti e pensionati, tutti i soci possono partecipare alla gestione nei modi più vari. Una descrizione abbastanza chiara della nostra attività si legge nel secondo articolo dello statuto associativo:

"L'associazione si prefigge di promuovere e attuare progetti di ricerca sulla didattica e sulla produzione musicale fondate sulla libertà di espressione e il rispetto dell'individuo. Le attività didattiche si prefiggono di colmare un vuoto esistente nell'ambito istituzionale locale, offrendo e valorizzando una cultura musicale di base, non specialistica, non accademica, non commerciale, non autoritaria ma piuttosto fondata su momenti di reciproco scambio e confronto prediligendo e stimolando le situazioni collettive. L'Associazione è aperta a tutte le fasce di età ed è rivolta a valorizzare la diversità tramite l'interazione degli individui con particolare riferimento alle fasce di marginalità sociale contribuendo in tal modo alla crescita culturale e civile dei propri soci."

 

Direi che svolgete un lavoro lodevole. Nel grigio e opulento veneto dove ho trascorso metà della mia esistenza le scuole di musica che frequentavano i miei amici erano più delle fabbriche di "bravi" musicisti (la tecnica! la velocità di esecuzione!) che un luogo dove avvicinare la gente alla creatività tramite l'insegnamento di uno strumento...dato che siamo in argomento ti chiedo: hai visto il tanto discusso film Whiplash? Che ne pensi?

Ci vedo un'idea di studio e professionismo che non condivido. Whiplash non tratta di musica, ma della storia di un ragazzo che per emergere nella professione deve stare alle regole di uno stronzo. Per raccontare questo andava bene una professione qualsiasi, è un aspetto tipico della nostra società, escludente e competitiva, e la musica esiste anche in tante altre forme. Dal mio punto di vista è un film specialistico che illustra inconsapevolmente i danni dello specialismo, cui però ammicca con compiacenza.

Il quintetto Comanda Barabba esiste ancora? Quali erano/sono i territori musicali esplorati? Momenti memorabili?

Il quintetto ha subito qualche modifica: si sono aggiunti sei bambini e uno dei musicisti si è trasferito all'estero. Obiettivamente è più difficile vedersi per elaborare materiale nuovo, abbiamo fatto un piccolo tour in Olanda suonando alla Bimhuis di Amsterdam, che è una specie di tempio per il jazz contemporaneo, ed è stata una bella soddisfazione, ma al momento siamo attivi soprattutto con altri progetti. Comanda Barabba è formato da alcuni musicisti con i quali ho trascorso anni formativi nel senso più ampio, all'epoca in cui cominciammo a suonare insieme si faceva molto jazz e frequentavamo seminari (con Braxton, Roscoe Mitchell, Barre Phillips, Schiaffini e molti altri), ma abbiamo sempre fatto musica senza sentirci vincolati dalle idee che studiavamo, con molta ironia, creatività e una bella energia. Nei primi dieci anni abbiamo suonato e registrato soprattutto mie composizioni, mentre per il nostro ultimo disco (Jazz Resistant) abbiamo scritto qualcosa tutti. Memorabili sono gli anni che avevamo, non ne sono passati tantissimi, ma certe cose le abbiamo fatte grazie all'ingenuità e all'energia di allora, e in certa misura continuano a crescere e maturare oggi.

Magari troverai di una banalità estrema la domanda che ti sto per fare ma essendo la prima volta in vita mia che intervisto un pianista non mi posso lasciar sfuggire l'occasione di indagare. In che modo il piano come strumento si è evoluto rispetto alla musica per la quale è stato creato? Gli unici esempi di “evoluzione” sono i vari piani preparati?

​In certi contesti si cerca di ricavare dal pianoforte suoni non convenzionali, ​agendo direttamente sulle corde nei modi più vari o appoggiando oggetti sulla cordiera in modo che vibrando producano suoni per simpatia. Credo che il motivo per cui si fa questo tipo di ricerca sia in parte costituito dal desiderio di riappropriarsi del suono, della sua unicità, della fisicità dello strumento. Nel pianoforte il suono è generato da una corda percossa da un martelletto, e tra il pianista e quel martelletto c'è un meccanismo, azionato da un tasto, che facilita la produzione del suono ma crea anche una distanza. Suonando altri strumenti ci si trova usualmente a pizzicare corde, soffiare, percuotere, ovvero ad incidere fisicamente sulla produzione del suono. Quel che si fa sul piano preparato mi sembra vada (o torni) in questa direzione. Non so se si tratti di un'evoluzione, secondo me ha più a che fare con le prime pratiche sonore, quando gli strumenti musicali e i suoni non avevano ancora assunto quelle caratteristiche tanto ben definite che oggi riconosciamo e diamo per scontate. Penso che quel che si fa dentro il pianoforte assomigli a quel che si faceva prima che ci fosse il pianoforte intorno. E' nel linguaggio che c'è evoluzione, l'incontrarsi e il mescolarsi di linguaggi diversi ha aperto alla possibilità di utilizzare in modo differente i suoni dello strumento, anche quelli convenzionali, che sono già tanti.

 

In “Step Across the Border”, documentario su Fred Frith, si parla del gesto sonoro, “the musical gesture” che secondo il chitarrista inglese è la vera cifra del musicista, la sua anima. Ogni esecutore genera sfumature a sé, anche se lo strumento suonato è lo stesso identico, sfumature che brillano di una luce immacolata. La postura è diversa, il modo di pizzicare/percuotere/schiacciare i tasti è diverso... un pianista il cui tocco ti ha sempre intrigato e che riconosceresti con certezza in mezzo a mille altri?

Pablo Ziegler, il pianista del quintetto di Piazzolla, ha uno dei tocchi pianistici che più mi hanno influenzato per quanto riguarda il suono "classico", lo ascoltai anche a Bologna negli anni novanta al TPO, purtroppo senza Piazzolla, comunque da brividi. Thelonious Monk e Bill Evans sono i pianisti che ho ascoltato di più tra i jazzisti, credo potrei riconoscerli, ma non mi sono mai “fissato” con un musicista in particolare e non sono un fanatico del mio strumento. Gran parte della musica esistente al mondo non è per pianoforte, io ascolto di tutto, un’idea può essere espressa in diversi modi, con diversi suoni, e se l’idea mi stimola cerco di interpretarla con il mio linguaggio. Non mi riferisco solo a idee musicali, possiamo utilizzare colori, gesti, geometrie e molto altro.

Volendo possiamo vedere gli strumenti come nient'altro che un'amplificazione dei pensieri di chi li suona, no? In pratiche come l'improvvisazione, ad esempio, è curioso notare come gli eventi più interessanti generino da cose che sfuggono del tutto o parzialmente al controllo. Ogni singolo passaggio influenza quello successivo e si arriva così a delineare una sorta di sensibilità intuitiva, che in musiche con uno schema di composizione non troveremmo intarsiata delle stesse attese, suggestioni, dettagli elettrizzanti. Qual'è il tuo rapporto con l'impro? Come è cambiato nel tempo?

La musica è un modo di organizzare i suoni soggetto a varianti potenzialmente infinite, ne sono testimonianza le tante diverse culture del mondo. L'uso del suono per formare linguaggi ci accomuna, mentre il modo in cui lo utilizziamo ci differenzia, costituisce una peculiarità del contesto, a volte dell'individuo, ed è un valore nella misura in cui lo è l'identità. Questa dimensione identitaria ha subito di recente trasformazioni rapide, la possibilità di riprodurre e diffondere la musica va di pari passo con l'evoluzione dei media, col risvolto inquietante del condizionamento culturale, di un livellamento utile soprattutto al mercato. Non serve pensare, dobbiamo solo scegliere tra i prodotti disponibili, che a volte diventano bisogni e non lasciano tempo per inventarsi altro. In questo meccanismo ci nasciamo, lo assimiliamo e lo assecondiamo, può diventare difficile avere pensieri propri, ci si disabitua. Attraverso l'improvvisazione possiamo essere liberi di fare quello che vogliamo, ne possiamo essere diretti responsabili e possiamo farlo insieme ad altri. E' una pratica sana, un modo di tenere in esercizio la propria autonomia di pensiero e di azione. Praticare questa libertà mi dà un grande piacere, perchè mi esprimo senza compromessi con ciò che sento, che sono e che faccio. Penso che qualcosa di questo approccio si possa e si debba esercitare anche al di fuori della musica. Non credo che il mio rapporto con l'improvvisazione sia cambiato tanto, ha uno sviluppo naturale, che si nutre di conoscenza nel senso più ampio. Di certo è cambiato il mio rapporto con la musica. Se da un lato ho deciso di non alimentarne certi contesti, dall'altro mi sono impegnato sempre di più nella didattica e nella ricerca di alternative.

 

Penso di capire, almeno un po', il tuo interesse verso la didattica. La musica così come l'arte, la letteratura o, perché no, la moda hanno rappresentato per lungo tempo uno zeitgeist, una visione nella quale si rifletteva il modo in cui le proprie antenne captavano i segnali di quel determinato frangente storico e sociale che si stava vivendo. Poi la cosa si è gradualmente erosa trasformandosi in categoria merceologica: semplici prodotti da spolpare e gettare fuori dal finestrino dell'auto in corsa. Le sacche di resistenza ci sono, per fortuna, e sempre ci saranno. Spesso però ragiono sul fatto che si è arrivati oggi a un tale livello di sfiducia/abulia/scazzo così diffuso perché la gente non vuole dedicare del tempo per avvicinarsi alle cose, costruirsi una cultura e ampliare le proprie conoscenze (che a ben vedere è l'unico modo per non farsi “disinnescare” dal sistema). Vado col pensiero a tutto quanto di buono fatta dai centri sociali nel nostro paese, al fatto che al loro interno si conservasse la memoria storica dei movimenti antagonisti e si incentivassero esperienze di creatività vera, non solo musicale... e un po' mi sento fortunato ad esserci passato. Senza quell'imprinting forse non avrei aperto tante porte e finestre e sarei anch'io accodato al sentire generalizzato, stanco, con la miccia corta.

Credo sia inutile lamentarsi delle condizioni culturali se non si agisce sul modo in cui la cultura si forma. E certo non basta suonare, se ci specializziamo nella convinzione che sia sufficiente fare la propria parte perdiamo di vista l’insieme cui ci riferiamo. Alla musica si chiede il conforto delle cose già sentite, vogliamo automobili che sembrino progettate in un futuro remoto per andarci poi a far la spesa all’ipermercato. Varrebbe la pena chiedersi dove viene indirizzato, e speso, il nostro naturale bisogno di stimoli. Molti aspetti del nostro carattere e delle nostre scelte sono influenzati dal contesto e non sempre in modo consapevole. In certi attaccamenti vedo l'incapacità di immaginare qualcosa di diverso, di migliore, di volerlo e realizzarlo. Forse siamo talmente subissati di stimoli mirati al consumo, talmente impegnati ad assomigliare a qualcun altro, che non ci resta tempo nemmeno per desiderare davvero qualcosa. Trovo che la fantasia e l’immaginazione abbiano poco spazio nella società in cui viviamo e ovviamente questo è un male, la possibilità di trovare delle alternative è data anche dalla capacità di immaginarle. Una cultura chiusa è destinata al collasso, perché le condizioni che l’hanno determinata non varranno per sempre, e nel nostro caso mi sembra che queste condizioni siano rette dalla paura di perderle più che dal piacere di viverle. Si dedica alla cultura un tempo residuale, l’assolvimento dei “doveri” assorbe quasi del tutto le nostre energie, impegnamo la nostra esistenza per l'interesse di altri. Per me è importante riflettere su questi aspetti, è importante farlo insieme ad altre persone e in questo senso la dimensione didattica può facilitare il confronto. La musica, il modo in cui è concepita, il significato che ha per la società e per l'individuo, dice molto della cultura che riflette. Trovarmi con persone che vogliono capire e fare musica, che sono attratte da qualcosa che non conoscono ma da cui sono toccate costituisce la possibilità di porsi delle domande e cercare le risposte. Secondo Luciano Berio le idee capaci di toccare e trasformare i suoni, i rumori, sono fatte della stessa pasta delle idee che muovono il mondo. La musica non è una soluzione, ma esercita processi importanti, da sempre. Non è un caso che le dittature (più o meno esplicite) attuino forme di censura (più o meno esplicite) sulle possibilità di esprimersi, musica compresa.

Addentriamoci ora nella tua corposa discografia. Ti ho conosciuto con “Tecniche Arcaiche” e quindi mi viene spontaneo chiederti qualcosa a riguardo della realizzazione del disco, magari partendo proprio dal titolo (che a me evoca in prima battuta l'idea di un artigianato pre-industriale, di cosa fatta con le mani, l'ingegno e materiali poveri).

La tecnica pianistica si è evoluta in modo impressionante includendo una notevole varietà di linguaggi, creando un recinto talmente ampio che sembra impossibile pensare ad ulteriori sviluppi. La complessità dei sistemi che mettiamo in piedi a volte ci impedisce di immaginare altre direzioni, facciamo scelte abitudinarie, le abitudini diventano ciò che siamo. E' un rischio che corre anche chi vuole negare per principio le soluzioni convenzionali, volendosi porre assolutamente e sempre fuori dalla gabbia: il manierismo può diventare a sua volta una barriera. Con Tecniche Arcaiche volevo fare qualcosa che potesse definirsi un disco di musica per pianoforte evitando riferimenti a modalità pianistiche consolidate. Formalmente ho seguito principi compositivi assodati, quantomeno da me. Con "tecnica" intendo il modo di suonare lo strumento, e ho cercato di immaginare come avrei suonato venendo da un'epoca in cui la tecnica non fosse ancora storicizzata, articolando la costruzione e l'organizzazione del suono esclusivamente a partire dalla mia sensibilità e dal rapporto fisico con lo strumento. Nel lavoro in solo questo vocabolario è messo a nudo, ma la maggior parte delle mie “tecniche arcaiche” nascono improvvisando insieme ad altri, cercando un approccio che mi permetta di dialogare nella maggior varietà di condizioni. Questo significa che il materiale musicale su cui lavoro funziona per me, per improvvisare in solo, ma funziona anche nella relazione con altri. Molto mi hanno insegnato coloro che mi hanno posto nella condizione di dover trovare soluzioni diverse da quelle per cui il pianoforte aveva già dato una risposta. Messa in questi termini la faccenda può sembrare seriosa, ma si tratta di fare musica, è un grande piacere innanzi tutto.

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